Manca un mese all’inizio di Cop29. La ventinovesima conferenza dell’Onu sul cambiamento climatico si terrà a Baku, in Azerbaijan, dall’11 al 22 novembre. La risposta più attesa dal negoziato riguarda una questione lasciata irrisolta sin dall’accordo di Parigi del 2015: con quali soldi finanziare la transizione ecologica?
Nel Paese caucasico le discussioni sono già cominciate. Il 10 e l’11 ottobre i rappresentanti delle delegazioni, i ministri e i commissari per il Clima sono arrivati a Baku per la pre-Cop, l’evento di preparazione che dovrebbe consentire ai Paesi della Convenzione quadro sul clima (Unfccc) di raggiungere gli attesi risultati della Cop29.
L’unità di misura per valutare successi e insuccessi del negoziato di quest’anno è il dollaro. L’asticella è fissata sulla cifra di mille miliardi all’anno. Alla conferenza si dovranno, infatti, rinegoziare gli aiuti economici che i Paesi industrializzati devono versare agli Stati meno responsabili del riscaldamento globale.
I due obiettivi finanziari riguardano, nel linguaggio tecnico dell’Onu, il Loss and damage fund, cioè il fondo per i risarcimenti dei danni e delle perdite causati dagli eventi meteorologici estremi, e il New collective quantified goal (Ncqg), ossia il nuovo obiettivo finanziario per il clima, le risorse da sbloccare per la transizione ecologica.
I negoziati sull’Ncqg sono in corso da tre anni, ma a poche settimane dalla conferenza restano da decidere diversi aspetti: l’ammontare della cifra finale (il quantum), i soggetti che contribuiscono (la base dei contributori) e le fonti di finanziamento (compresa la mobilitazione del settore privato). Alla pre-Cop se ne sta discutendo, ma nei padiglioni futuristici dell’Heydar Aliyev Center di Baku le aspettative di successo sono minime e, secondo l’analista Ed King, c’è molta sfiducia da parte delle delegazioni, per una serie di ragioni.
L’obiettivo finanziario della Cop29 dovrebbe essere dieci volte la cifra del precedente fondo per il clima, il Green climate fund, un finanziamento da cento miliardi di dollari che, ogni anno, i Paesi occidentali avrebbero dovuto versare al Sud globale. Cifre raggiunte solo nel 2022 da parte delle delegazioni. Il gruppo Aosis, l’Alleanza dei piccoli Stati insulari, ha dichiarato che si «sta negoziando praticamente al buio». Gli stessi Paesi in via di sviluppo hanno idee diverse sulla cifra da ricevere dagli Stati più industrializzati.
Il gruppo africano spinge per 1,3 trilioni di dollari entro il 2030, mentre il gruppo arabo ne chiede 1,1 trilioni. Cina e Arabia Saudita, che i Paesi occidentali vorrebbero dalla parte dei donatori, non sembrano intenzionate a contribuire e non hanno inviato ministri all’incontro finanziario dell’Assemblea generale dell’Onu di inizio ottobre.
Secondo un nuovo calcolatore del World resource institute, gli Stati Uniti dovrebbero fornire il quarantadue per cento dei finanziamenti climatici, l’Europa il ventidue e la Cina il sei. A complicare ulteriormente la questione, oltre la precaria situazione geopolitica globale, sono anche le elezioni presidenziali statunitensi del 5 novembre. A pochi giorni dall’inizio della Cop, il timore è che la vittoria di Donald Trump abbia come conseguenza il disimpegno americano su qualsiasi questione climatica e di compromesso con la Cina.
Segnali positivi arrivano però dalla Colombia e dalla Danimarca, che stanno cercando di dare credibilità alla Beyond oil and gas alliance, un’alleanza per facilitare l’abbandono della produzione di idrocarburi. E poi c’è il Brasile, che, di turno alla presidenza del G20, sta portando avanti una proposta per tassare i super ricchi e recuperare i soldi necessari per la transizione.
Nonostante il poco successo riscosso finora, la speranza è che il progetto sia in agenda anche alla Cop30 a guida brasiliana. Come sottolineato da Alex Scott, analista di Ecco, centro studi italiano sul clima, «il segnale incoraggiante è che almeno la dimensione finanziaria del problema climatico è entrata a far parte dei discorsi politici dei governi».
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