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Policoro, il boss Scarcia: «Ma quale pizzo, regali degli amici» #finsubito prestito immediato


Il presunto boss degli Scarcia di Policoro respinge le accuse sul racket e il monopolio della pesca e si difende: «Regali degli amici


POTENZA – Non ci sarebbe stata nessuna pretesa egemonica sule acque davanti al litorale di Policoro, ma la difesa del fondale marino dalle reti a strascico dei pescherecci pirata. Mentre i soldi ricevuti da imprenditori e commercianti non sarebbero stati il pizzo di cui parlano i pm, ma regali di amici di lunga data.
Si è difeso così, ieri mattina nel carcere di Taranto, Salvatore Scarcia, considerato dagli inquirenti il boss dell’omonimo clan operante nella cittadina ionica.

LEGGI ANCHE: Pizzo sulla pesca, blitz antimafia in Basilicata: 21 fermi

Il 57enne pluripregiudicato, assistito dagli avvocati Maria Rosaria Malvinni e Michele Russo, è comparso tra i primi a comparire in aula per l’udienza di convalida del fermo dei 21 destinatari del decreto eseguito mercoledì dall’Antimafia di Potenza. Nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta «confederazione mafiosa» istituita dagli Scarcia di Policoro e dai cugini tarantini della famiglia Scarci, trasferitesi da diverso. Uno dei pochi, inoltre, a non avvalersi della facoltà di non rispondere, parlando per quasi 4 ore davanti al gip Rita Romano.

LA DIFESA DEL PRESUNTO BOSS DI POLICORO SALVATORE SCARCIA

Il presunto boss ha respinto la totalità delle accuse che gli vengono mosse. Ha escluso l’esistenza di un clan Scarcia e le cointeressenze criminali con i cugini tarantini. Ha marcato le distanze persino dal fratello, Daniele, e ha negato di aver dato ordini dal carcere, dove è detenuto dal 2020 per altre vicende. Scagionando i figli che gli avrebbero riferito del denaro ricevuto, «in regalo», da varie persone.
«Se voglio il pizzo non vado dai miei amici ma da tanti commercianti, a tappeto». Questo il concetto evidenziato dal 57enne a fronte dell’accusa di estorsione aggravata dall’agevolazione mafiosa. A riprova dei queste generose amicizie, Scarcia ha portato alcune lettere ricevute in carcere dai suoi benefattori, con foto di bambini e quant’altro.

Quanto all’accusa di aver esercitato una «signoria» sul mare di Policoro, pretendendo una «parte» n denaro o in pescato dalle «paranze» che vi lanciavano le reti, il presunto boss è stato perentorio. Rivendicando di aver chiesto soltanto il rispetto del limite delle 3 miglia marine dalla costa fissato dalla legge per la pesca a strascico sul fondale. Anche perché avvicinandosi al litorale alcuni di questi grandi pescherecci avrebbero finito per rovinargli le reti.
Scarcia ha anche negato di aver chiuso in un appartamento l’ex un suo ex fedelissimo Francesco Fiore Comisso, per costringerlo a ritrattare le dichiarazioni rese ai pm dell’Antimafia di Potenza dopo un’iniziale decisione di collaborare con la giustizia.

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Si è detto del tutto all’oscuro, infine, di altre presunte estorsioni ai danni dei giostrai di un luna park allestito a Policoro, e di un paio di rivenditori ambulanti di pesce.
Le udienze di convalida dei fermi dovrebbero proseguire anche oggi, sia a Matera che a Taranto. Mentre le decisioni dei due gip sono attese al più tardi entro domani.

LE TESI DELLE INDAGINI DELLA DDA DI POTENZA

L’inchiesta della Dda di Potenza sulla «confederazione mafiosa» Scarcia-Scarci ipotizza l’esistenza, tra Scanzano e Policoro, di un «quadrato ambientale», ovvero «uno spazio sociale in cui alla collettività — operatori economici e cittadinanza tutta — sono note la presenza del sodalizio e le regole informali mafiose (spietatezza dei metodi, ineluttabilità delle reazioni sanzionatorie e codici di comunicazione)». Il tutto con un « grado di diffusività (…) talmente elevato, continuo e penetrante da rendere quel contesto ambientale un ordinamento informale mafioso il cui linguaggio è da tutti percepibile, a qualsiasi latitudine». Sicché: «l’intimidazione e l’assoggettamento della popolazione può derivare dalla sola presenza del sodalizio sul territorio e dalla fama criminale che il gruppo ha generato per mezzo di un pregresso e continuato utilizzo della violenza».

Secondo gli inquirenti, insomma: «non è (…) necessario per il sodale che voglia compiere un’attività illecita varcare le formali soglie della minaccia, giacché la rappresentazione di un male ingiusto avviene nella psiche della vittima del reato in ragione di condotte molto meno significative sul piano normativo».
Gli inquirenti guidati dal procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, parlano di «mafia delle terre del sud» o «mafia silente» che è la «manifestazione evolutiva maturata dopo una stagione di violenze, non avendo (…) più necessità di imporsi sul contesto sociale ed economico di riferimento con atti brutali (se non in casi eccezionali, facendo ricorso a quella riserva di violenza che è sempre insita e necessaria in un sodalizio mafioso) perché già pienamente consapevole tanto dell’esistenza, quanto della composizione soggettiva della stessa».



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