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La ricca filiera del fashion in crisi, tra illegalità e piaga del lavoro nero #finsubito prestito immediato


Otto miliardi e 350 milioni di euro. Stando alle stime del centro studi di Confindustria Toscana Nord, riferite al 2022, è tanto quanto vale il giro economico del distretto tessile-moda di Prato, considerato il più grande d’Europa. Si divide tra tessile – la produzione di tessuti e filati – e filiera moda, l’insieme del settore che ai beni intermedi del primo, aggiunge confezioni e accessori. Conta circa 7 mila aziende per poco più di 41 mila addetti, un export che vale 2 miliardi e 746 milioni e un indotto che, oltre agli altri comuni della provincia, tocca anche quelli limitrofi come Agliana, Quarrata, Montale, Campi Bisenzio e Calenzano. Sulle 4252 aziende delle confezioni quelle sicuramente cinesi sono il 78% mentre sulle 2270 aziende del tessile, le imprese sicuramente cinesi sono il 15%.

UN DISTRETTO CHE È SALITO SUGLI ALTARI delle cronache la mattina del 9 ottobre scorso. «Nella notte tra l’8 e il 9 ottobre una squadraccia armata di spranghe ci ha attaccato mentre stavamo facendo un picchetto davanti alla confezione Lin Weidong a Seano (Carmignano, ndr) – spiega Luca Toscano, sindacalista dei Sudd Cobas Prato – mandando 4 persone in ospedale. Mentre si dileguavano, gli aggressori, italiani, hanno urlato la prossima volta vi spariamo. Se esistesse una statistica per le aggressioni a lavoratori in sciopero, Prato sarebbe in cima alla lista. Il nostro territorio è ostaggio di queste realtà».

Operai e sindacalisti stavano protestando per la «regolarizzazione dei rapporti di lavoro» e la «riduzione a otto ore» dell’orario. A seguito dell’aggressione sono scattati controlli e perquisizioni nei confronti dell’azienda mentre sindacati e lavoratori hanno risposto con una manifestazione per le vie della frazione carmignanese, domenica scorsa. «Qua ci sono migliaia di lavoratori in condizioni di sfruttamento estremo – osserva Toscano – perlopiù cinesi, africani, pachistani o bangladesi. Secondo i dati dell’ispettorato, l’anno scorso è emerso un 40% di casi dove se il lavoro non era nero, era grigio con paghe imbarazzanti. E lavorare 12 ore al giorno per tanti è la norma».

DI LAVORO NERO E PRATO, negli ultimi anni si è spesso sentito parlare. E di sovente legato alle ditte cinesi, solo in parte irregolari, che distribuiscono i loro prodotti in tutta Europa. Dopo il rogo in cui morirono cinque persone di origine cinese nel dicembre 2013 all’interno di una ditta di Pronto Moda nella zona industriale del Macrolotto, emerse prepotentemente il problema delle fabbriche-dormitorio. Venne istituita una task force per cercare di arginare il fenomeno, con forze dell’ordine, azienda sanitaria locale e ispettori del lavoro. Il problema di lavoro nero e sfruttamento però è rimasto. E si ripercuote anche sulle altre aziende presenti. «La questione dell’illegalità – commenta Ingrid Grasso della Fema Cisl Prato – è problematica perché droga l’intero sistema produttivo. È una continua concorrenza sleale a chi segue le regole». Sull’attrattiva per l’illegalità, aveva detto la sua anche Salvatore Calleri, presidente della Fondazione Antonino Caponnetto.

Dopo un incendio nella zona del Macrolotto 2, divampato il 15 luglio scorso in un capannone industriale, Calleri aveva sottolineato che «non era stato un caso» arrivando a spiegare che a Prato «è in corso la guerra delle grucce, importanti nel settore moda e con un fatturato di circa 100 milioni di euro l’anno. Probabilmente ci scapperà il morto. E si sente odore di triadi».

MA LA PRESUNTA PRESENZA DELLA MAFIA CINESE, non è il solo problema del distretto dove si lavora per tanti gruppi europei e non solo. «C’è chi produce per Louis Vuitton, Fendi, Zara, che è arrivata anche al 40% della produzione, o i grandi gruppi del tessile – dichiara Juri Meneghetti, segretario della Filctem Cgil Prato – Le griffe si servono di terzisti per la stoffa. Si tratta perlopiù di medie e piccole imprese, quelle sopra i 100 dipendenti sono poche. In città non c’è un settore alternativo così grande. Se si ferma, come sta accadendo, è un problema: se oggi una persona perde il lavoro, difficilmente lo ritrova».

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E il settore è decisamente rallentato. Dopo le difficoltà dell’anno del Covid, nei due anni successivi il distretto sembrava avviato verso la ripresa – con punte di +26,5 % di export nel settore maglieria e abbigliamento – mentre nell’ultimo anno la crisi è tornata a farsi sentire registrando un -9,1% di export e -7,8% nel tessile. La cassa integrazione, attivata già nel 2023 da tante imprese, non sembra bastare. Molte hanno chiuso – e tante denunciano cali del fatturato anche del 90% – e la regione Toscana ha sollecitato l’intervento del governo. Il 6 agosto e il 25 settembre si sono tenuti due tavoli della moda col ministro Adolfo Urso che hanno portato a due fumate grigie.

PER CERCARE DI TROVARE UNA SOLUZIONE in tempi rapidi, il 30 settembre si è tenuto un tavolo coi parlamentari dove è emerso che nelle ultime due settimane di settembre le richieste di disoccupazione nel settore sono aumentate del 20%. E intanto la proposta di moratoria per il pagamento di F24 e prestiti bancari è ferma, i contributi agli investimenti sul modello del governo Draghi sembrano utopistici e l’estensione della cassa integrazione è saltata dal decreto Omnibus: per farla rientrare nella legge di bilancio o trovarle uno spazio nel ddl Concorrenza, ci vorrebbe una corsa contro il tempo.

«C’è da fare presto» ha ribadito la sindaca di Prato Ilaria Bugetti. «C’è una crisi mondiale e il distretto c’è dentro – sottolinea Meneghetti – Per usare un brutto termine, va portato vivo almeno fino a gennaio-febbraio visto che non ci sono previsioni di ripresa a breve. O si rischia di perdere tutto, compreso il sapere acquisito, col risultato che poi i compratori vadano altrove e le conseguenze del caso per la città. Già oggi i negozi vendono meno. E per gli imprenditori corretti c’è la beffa della produzione illegale che va avanti. Prato è un polo attrattivo per l’illegalità e la parte malata danneggia quella sana. Le forze in campo sono insufficienti ma a livello nazionale non c’è volontà politica per risolvere il problema».



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