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A scuola di sostenibilità: “Non è una disciplina a sé stante, ma una lente per filtrare tutti i processi aziendali” #adessonews

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Come si insegna la sostenibilità? Per rispondere, partiamo dalle motivazioni e poniamoci la domanda delle domande: perché. Federico Frattini, Dean Polimi Graduate School of Management, spiega che da una visione settoriale della sostenibilità, relegata alla funzione e al responsabile Csr, si passa sempre più a un’integrazione completa nelle strategie e nei processi aziendali. Un percorso analogo a quello compiuto con il digitale: “Negli ultimi 20 anni il tema è stato affrontato dalle aziende, quindi di riflesso, dalle università e dalle business school, secondo una visione però in cui la sostenibilità era un task e un set di attività che erano in capo solo ad alcune figure e unità organizzative, come il corporate social responsibility manager e il sustainability manager, in qualche modo isolate dal resto dell’organizzazione. Da qualche anno sta prendendo piede un fenomeno che potremmo chiamare di transizione verso un modello di sostenibilità integrale, vale a dire che questa non rimane slegata dal core business delle aziende, ma la generazione di un impatto positivo si integra tra gli obiettivi dell’organizzazione, si fa purpose (“scopo”). Riguarda quindi tutte le funzioni aziendali”.

Quindi cambiano anche le competenze?

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“Certo, prima erano piuttosto tecniche, legate appunto alla reportistica, alla misurazione dell’impatto e, in particolare, alle misure di compensazione delle emissioni di CO2. Ora si cercano competenze trasversali, necessarie a chiunque lavori in tutte le aree e in tutti gli ambiti in cui si articola il funzionamento di un’impresa, dalla strategia, al marketing, alle operations, alla supply chain, all’innovazione”.

Regge il paragone con le digital skills.

“Sì, inizialmente riguardavano un nucleo ristretto di persone che stavano nella funzione IT o nella digital transformation. Adesso le competenze digitali sono assolutamente trasversali, perché qualsiasi lavoro, qualsiasi processo, qualsiasi attività in impresa, presuppone oggi di essere abilitata, ottimizzata e valorizzata tramite il digitale”.

Però non siamo ancora a questo punto. Un approccio di “sostenibilità integrale” deve essere guidato dall’apice?

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“Senz’altro. Questo percorso di trasversalizzazione e di maggiore pervasività delle competenze di sostenibilità avviene per gradi. Ecco perché sono competenze richieste soprattutto ai top manager ad oggi. Anche con il digitale è stato così, insisto. Ricordo l’epoca in cui facevamo corsi di formazione sulle digital skills ai board, ai C-level, oppure alle figure dirigenziali, adesso ci chiedono programmi per formare trasversalmente tutti gli operativi”.

Quindi cosa si aspetta?

“Tra 5-7 anni al massimo mi aspetto che le business school e le università saranno chiamate a dover diffondere queste competenze davvero a tutti i livelli dell’organigramma aziendale, quantomeno nelle grandi imprese”.

Ha toccato un altro tema. Le piccole e medie aziende sono indietro?

“Bisogna distinguere da un lato la consapevolezza, l’awareness, sul bisogno di sviluppare queste competenze nella propria organizzazione, e dall’altro la volontà di farlo, di investirci risorse. Ecco, oggi siamo in una fase in cui nelle grandi aziende c’è awareness sulla necessità di investire nello sviluppo di queste competenze della popolazione aziendale, partendo dai livelli di vertice. Sulle pmi invece, e questa è la cosa che mi preoccupa, bisogna partire ancora dal generare consapevolezza, aprire gli occhi. E questo è un impegno che, come business school, abbiamo inserito nel nostro piano strategico”.

Di cosa non si è abbastanza consapevoli?

“Del fatto che investire nelle competenze di sostenibilità delle proprie persone non sia solo un tema che ha a che fare con l’occuparsi dell’ambiente e delle comunità locali, o di compensare gli effetti negativi della propria attività, ma è un fattore competitivo”.

Allora siamo giunti alla domanda iniziale. Come si insegna la sostenibilità?

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“Bisogna partire dalle hard skills specifiche per gestire i temi e i processi legati alla sostenibilità e all’impatto. Quindi corsi di formazione che possono essere master o percorsi più brevi, di upskilling e reskilling, che insegnano, ad esempio, i criteri Esg nella finanza, piuttosto che il reporting per la sostenibilità, oppure sistemi di misurazione di accounting, il concetto di purpose, di finanza sostenibile, di innovazione per l’impatto. Ma questo è solo il primo aspetto”.

Il secondo?

“La contaminazione. Trasformare anche i corsi di formazione generalisti, come quelli di general management e quelli dedicati alle varie funzioni aziendali, in modo tale che ciascun studente sappia cosa vuol dire integrare al business i principi e le logiche della sostenibilità e dell’impatto”.

Una rivoluzione di metodo.

“Faccio un esempio. La prima lezione del nostro Mba è sul valore economico, quindi anche su Milton Friedman, fautore del noto assunto ‘esiste una sola e unica responsabilità sociale per l’impresa: usare le sue risorse e dedicarsi a attività volte a aumentare i propri profitti’. Questo principio è stato dato per scontato in cinquant’anni di vita delle quattordicimila business school che esistono nel mondo. Noi già in questo primo modulo la mettiamo in discussione, parlando di purpose e di conscious capitalism. Offriamo sin dal primo punto di ingresso nel mondo del management una chiave di lettura che nella sostenibilità ha origine”.

Insomma, non solo una materia ma, a priori, una visione del mondo.

“Esatto”.



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