“Questo Piano triennale della pesca l’abbiamo sviluppato secondo un paio di direttrici. La prima direttrice era quella della sicurezza sul lavoro, ma l’altra fondamentalmente è il ricambio generazionale che non c’è. In un sistema in crisi non c’è un ricambio generazionale. Un tempo uno andava a Mazara del Vallo anziché a Chioggia e trovava tutti i pescatori che avevano lo stesso cognome, perché era un processo che si tramandava da padre in figlio. Oggi il genitore preferisce fargli fare altri lavori che il pescatore per un motivo semplice: non c’è una grossa, anzi c’è un minimo di remunerazione,molto rischio, c’è lo sforzo di pesca che è stato fortemente abbattuto.”
Così Paolo Mattei (Segretario Nazionale UGL Agroalimentare) a margine del Rapporto di UGL Agroalimentare settore Pesca dal titolo “Ricambio generazionale e formazione: orientamenti e pregiudizi degli italiani sull’occupazione nel settore pesca e acquacoltura”.
“Poi se ci mettiamo che insieme ci sono stati due eventi abbastanza importanti come quello delle specie aliene, il granchio blu e soprattutto il surriscaldamento del mare. Nel 2024 abbiamo avuto 30 gradi a sei metri di profondità, il che significa la moria di quasi tutti i mitili e questo genere di pescato oggi rappresenta scarsamente il 30% del valore complessivo rispetto a ieri. Quindi per il ricambio generazionale è necessario fare altre cose.
La Comunità europea tende a diminuire lo sforzo di pesca di pesca dando contributi per la demolizione. Noi abbiamo un parco di pescherecci che hanno ormai un’età di 50 anni e che il pescatore con dei guadagni così irrisori non riesce più né ad adeguare né quanto meno a creare anche i presupposti per una migliore pesca. Quindi ci vorrebbero interventi tipo quello fatto con le macchine, ovvero la rottamazione.
La rottamazione potrebbe essere un elemento importante perché inseriamo due concetti. Il primo concetto è quello di avere delle attrezzature più sicure, ecologicamente migliori perché sicuramente inquinano di meno, consumando molto meno rispetto ad un motore di cinquant’anni fa e quindi si potrebbe dare una maggiore spinta. L’altra spinta vera è che se diminuisce lo sforzo di pesca bisogna aumentare delle altre cose. Cioè noi in Italia ormai abbiamo bene o male una quantità di pescato che equivale al 50% tra quello dell’acquacoltura e quello pescato in mare. Il problema è come valorizzare il pescato italiano, cioè la filiera corta, ma soprattutto anche la qualità dei nostri mari e anche la qualità della nostra cultura.
Noi abbiamo delle norme che ci obbligano a dare dei mangimi in un certo modo, di curare le acque sia se sono a livello di stagno che sia a livello in mare aperto. Quindi noi abbiamo dei costi di produzione molto più elevati rispetto ad altri Paesi, quindi questo processo del prodotto ittico italiano va valorizzato e va creato reddito. Quindi questi due secondo noi possono essere gli elementi che ci fanno traguardare un prossimo futuro all’interno della pesca.”
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