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“La meno-quasi e più-realtà”. Come guardare un’immagine nel saggio di Andrea Rabbito #adessonews

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Quello che don Chisciotte prova dinnanzi al teatro di mastro Pedro, scambiando le marionette in azione per nemici concreti e agendo di conseguenza per colpirli, non è poi così distante dall’atteggiamento fuori dall’assetto razionale di chi osserva oggi un’immagine fotografica, ma anche cinematografica e, più in generale, audiovisiva.

È quanto sostiene Andrea Rabbito, professore ordinario di Cinema, fotografia e televisione all’università Kore di Enna, nel suo ultimo libro La meno-quasi e più realtà. Genealogia delle nuove immagini e indagini dalla prospettiva dei visual culture studies (con opere pittoriche di Andrea Mangione, Mimesis, 356 pagine, 30 euro). Lo studioso recupera alcune considerazioni di Jean-Paul Sartre (il quale considerava l’immagine come uno dei modi grazie ai quali un oggetto si manifesta alla coscienza), per ragionare sulle dinamiche del nostro sguardo nel momento in cui è alle prese con un’effigie capace di attivare “un’illusione di presenza e di vita, per stabilire un rapporto tra il rappresentato e la nostra coscienza”. Ma Rabbito chiama in causa pure il Roland Barthes della Camera chiara, laddove in un passaggio folgorante di poche righe ma di particolare intensità il grande saggista offre al proprio lettore un esempio di ciò che considera il “punctum” e lo “studium” di una foto.

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Barthes prendeva in considerazione uno scatto di Lewis Hine osservando come, rispetto ai due bambini immortalati, la sua attenzione non si focalizzasse sulle loro teste sproporzionate (ovvero su ciò che dovrebbe rientrare nella categoria dello “studium”), ma su particolari marginali – il colletto inamidato di uno, il dito fasciato dell’altra – che sono specifici della sfera del “punctum”. Per poi aggiungere: “Sono un selvaggio, un bambino – o un maniaco; io mi spoglio di ogni sapere, di ogni cultura”.

Questa frase, prepotente e rivelatoria, riesce a far luce su quei particolari meccanismi che si attivano nello spettatore durante la fruizione di una rappresentazione fotografica. È vero che su tali aspetti David Freedberg aveva già centrato il suo sguardo ne Il potere delle immagini (Einaudi, 2009), per non dire del filosofo australiano David J. Chalmers, che nel recente Più realtà. I mondi virtuali e i problemi della filosofia (Raffaello Cortina, 2023) si è espresso assai provocatoriamente. In realtà, ciò che aggiunge Rabbito ha l’obiettivo di mostrare due aspetti particolari: da un lato che l’immagine, sin dalla sua nascita, ha sempre richiesto allo spettatore di attivare il suo lato selvaggio, infantile e maniacale, per dirla con Barthes, e l’autore spiega con attenzione i processi attraverso i quali tutto ciò avviene; dall’altro, che l’immagine tecnica (che è propria della fotografia, delle televisione, degli audiovisivi), diversamente dalle varie forme di immagine classica, segna un scatto qualitativo, che consente di attivare più facilmente questa rivincita della sfera irrazionale.

È proprio Orson Welles, ci ricorda Rabbito, ad aver spiegato questo concetto attraverso una scena della trasposizione cinematografica di Don Chisciotte; scena nella quale l’hidalgo non ha più a che fare con lo spettacolo del teatro di marionette, ma con la rappresentazione offerta da un film in sala: da qui la viva suggestione in forza della quale ciò che lo schermo mostrava fosse considerata reale spingendo l’eroe di Cervantes a lanciarsi contro le ombre proiettate. Se da un lato è il film di Welles a dare in qualche modo supporto alla suggestione barthesiana del prevalere di un’espressione selvaggia, folle e fanciullesca, dall’altro sono gli studi di Jean-Paul Sartre, come già detto, e di Edgar Morin, a puntellare ulteriormente l’indagine di Rabbito.

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Dal primo l’autore recupera il concetto di “quasi-realtà” adattandolo all’immagine tecnica che, grazie alle sue caratteristiche, riduce la percezione del “quasi” (divenendo “meno-quasi”) e accentua la suggestione di realtà (trasformandosi in “più-realtà”). Mentre da Morin riprende la teoria che riguarda il “demens” del nostro essere (in cui si sente riecheggiare l’idea di Barthes), che va in stretto rapporto con la parte “ludens” (intenta a giocare) e quella razionale del “sapiens”.

Da questi presupposti Rabbito si muove per proporre un viaggio avventuroso dal passato più remoto fino ai giorni nostri, prendendo le mosse dalle caverne di Chauvet fino a lambire la realtà virtuale, con l’intento ostinato di indagare il rapporto millenario che l’uomo ha intrattenuto con le immagini e per rivelare come le immagini tecniche avviino una profonda rivoluzione. Tutto questo consente a Rabbito di suggerire una lettura vertiginosa riguardo ai diversi fenomeni presi in esame, carambolando tra estetica, letteratura, mediologia, film studies, antropologia e sociologia. Ne viene fuori uno spaccato che inquieta parecchio, se è vero che il selvaggio, il bambino, il maniaco condizionano pesantemente la nostra fruizione dei vari dispositivi. Con effetti perturbanti e atroci, se si guarda alla facilità con cui vengono prese per buone e propagate le fake news o alla velocità con cui attecchisce un certo tipo di propaganda.



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