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Ogni volta che scendo a Corleone non mi viene in mente Totò Riina, mi viene in mente il giudice Terranova. E ogni volta che penso a Cesare Terranova la memoria va alla commissione parlamentare antimafia: “quella” commissione parlamentare antimafia. È nato tutto là. Dal 1972 al 1976, sesta legislatura, Pio La Torre con le sue geniali intuizioni e Terranova che le traduceva in proposte di legge. Prima non si era mai parlato di associazione mafiosa, di indagini patrimoniali, sequestro e confisca di beni.
Il giudice Terranova è stato il magistrato che alla fine degli anni Cinquanta ha scoperto la pericolosità dei Corleonesi e, soprattutto, è stato il primo a fare paura alla mafia siciliana.
Il 25 settembre cade il quarantacinquesimo anniversario della sua morte (l’hanno ucciso alla vigilia del suo ritorno a Palermo, dove si sarebbe insediato dopo pochi giorni in tribunale come consigliere istruttore) e vengono i brividi a pensare come, dopo neanche mezzo secolo, quanto sia così di mediocre livello il dibattito dentro le stanze di Palazzo San Macuto. Dal segno lasciato da Pio la Torre e Cesare Terranova alla modestia delle discussioni – e degli scontri anche – di cui siamo stati testimoni negli ultimi mesi. Fuori da quelle aule un attacco senza precedenti alla legislazione antimafia per spazzare via il concorso esterno e cancellare le misure di prevenzione contro i boss, lì dentro manovre e giochini intorno al cosiddetto dossieraggio di Perugia e la grande ossessione per quel rapporto su mafia e appalti che avrebbe accelerato l’uccisione del procuratore Paolo Borsellino.
Era facile immaginare che finisse come è finita, tant’è che due anni fa – quando in molti la invocavano disperatamente e gridavano allo scandalo perché ancora non c’era – mi ero sbilanciato nello scrivere che era meglio così, che una commissione antimafia come quella che si annunciava era preferibile non averla, che sarebbe stato meglio abolirla per qualche anno. Non bisognava avere la palla di vetro per capire cosa sarebbe accaduto nei mesi successivi. E non soltanto per questione di nomi o di presidenti, è per l’aria che tirava, per la voglia di qualcuno di prendersi rivincite o addirittura consumare vendette. Lo scabroso caso del dossier su mafia e appalti è la prova più evidente che ci hanno esibito.
Ma è il peso e la credibilità di questa commissione – nome per intero “commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere” – che si sono perduti a causa di una caccia a fantasmi e un rimestare continuo e morboso nel passato per tentare di capovolgerlo. E tutto questo con un forte scompenso istituzionale, direi esagerato.
È un’Antimafia in caduta libera.
Faccio queste considerazioni alla vigilia delle celebrazioni in ricordo di Cesare Terranova, un omaggio a Palermo e l’altro nella “sua” Corleone, il luogo da dove sono arrivati i sicari per ucciderlo insieme al maresciallo di polizia Lenin Mancuso.
Lui ci ha lasciato un’eredità preziosissima (consiglio di andare a vedere “Il giudice e il boss” di Pasquale Scimeca, che in estate ha vinto il premio come miglior film del pubblico al Festival di Taormina e che sarà nelle sale a fine settembre), tesoro del suo impegno e del suo sapere ne hanno fatto poi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino istruendo nel 1984 il famoso maxi processo a Cosa Nostra.
Per capirci: Cesare Terranova è il magistrato che per primo ha inserito il nome di un allora sconosciuto Totò Riina in un rapporto che aveva come capofila Luciano Liggio. Il resto della storia purtroppo la conosciamo.
Una storia che, generazione dopo generazione, sembra non finire mai. E’ recente lo show di Salvuccio Riina, uno dei figli del Capo dei Capi, che sui social ha mandato auguri di ferragosto ai suoi fan “da via Scorsone”.
È la strada dove abita da sempre a Corleone la famiglia Riina. Una provocazione o – secondo alcuni – forse qualcosa di più. Perché via Scorsone non si chiama più via Scorsone ma via Cesare Terranova.
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